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Ipoacusia da rumore: in azienda non sono sufficienti le somme investite ma l’effettiva soluzione del problema

Lo afferma la Corte di Cassazione su una vicenda promossa dalla FIM CISL di Brescia

Va, anzitutto, premesso che la vicenda trae origine dalla malattia professionale (ipoacusia da rumore) contratta da alcuni lavoratori, nel periodo in cui lavoravano alle dipendenze delle Trafilerie Gnutti s.p.a., i cui (primi) sintomi sono stati avvertiti nei primi anni ’80: tuttavia l’accertamento della malattia (ossia il momento in cui la stessa è stata certificata) è avvenuto mediante gli audiogrammi effettuati nel 1987 (questo è il momento dal quale decorre il termine prescrizionale decennale del diritto al risarcimento del danno). 

Precedentemente all’instaurazione del giudizio civile, sfociato nella sentenza in oggetto, i lavoratori, tramite il sottoscritto, si erano costituiti parte civile (1996) nel procedimento penale a carico dei responsabili aziendali, di tal ché sia la Corte d’Appello di Brescia che, poi, la Cassazione, nel giudizio proposto sempre dai lavoratori assistiti dal sottoscritto,
hanno affermato che, con tale atto, era stata interrotta la prescrizione che, pertanto, ha ricominciato a decorrere (per altri dieci anni) da tale data, anche nei confronti dell’azienda/datore di lavoro (questione, peraltro, pacifica come reiteratamente stabilito dalla giurisprudenza.
E questo è il primo principio importante, sebbene non l’unico, affermato dalla Cassazione.

Il secondo punto, più controverso e assai più rilevante, tant’è che il Tribunale, in primo grado, ebbe a respingere il ricorso, riguarda l’onere probatorio sulla dimostrazione dell’adozione delle misure, previste dalla normativa in materia di infortuni e malattie professionali, idonee ad evitare, per l’appunto, il verificarsi di infortuni o malattie professionali che, secondo quanto previsto dall’art. 2087 c.c., incombe sul datore di lavoro.
In base al principio per cui ad impossibilia nemo tenetur, il Tribunale aveva respinto il ricorso di primo grado, nella sostanza, perché l’azienda avrebbe dimostrato, da un lato, di avere comunque tentato di risolvere il problema dell’eccessiva rumorosità dei macchinari (senza, tuttavia, riuscirvi) e, dall’altro, che l’adozione di tali misure sarebbe stata eccessivamente dispendiosa.
Ambedue le eccezioni sono state, viceversa, disattese sia dalla Corte d’Appello, sia dalla Cassazione.
E vediamo, in sintesi, il perché.

In attuazione delle prescrizioni previste sia dalle normative antinfortunistiche e per le malattie professionali (D.P.R. 303/1956 – 1124/65 etc.), sia dal codice civile (art. 2087 c.c.), l’azienda ebbe a fornire (1983) ai lavoratori gli otoprotettori (cuffie e tappi), senza, tuttavia, verificandone l’effettivo uso da parte dei lavoratori solo dal 1987, ossia quando i danni all’udito si erano già, in gran parte, prodotti: questo ha rappresentato un primo punto sul quale la Corte d’Appello e la Cassazione hanno fondato il rigetto del ricorso proposto dall’azienda.

Il secondo punto, ancor più pregnante, è stato indicato nel mancato rispetto della previsione di cui all’art. 2087 c.c. il quale prevede che, se sul lavoratore "danneggiato" incombe l’onere di dimostrare l’esistenza del danno ed il nesso causale fra nocività dell’ambiente di lavoro e danno, sul datore di lavoro incombe l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie ad impedire il verificarsi del danno, misure, non solo previste dalle norme citate, ma, soprattutto, in base alla particolarità del lavoro, all’esperienza ed alla tecnica.
In particolare, nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha affermato che "Poiché fondamento delle misure prescritte dall’art. 2087 c.c. è la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori, limite della necessità (di tali misure) non è la capacità economica aziendale…che non giustifica (come addotto dall’azienda) una minore necessità di tutela..Limite della necessità sono, solo, l’esperienza e la tecnica".

In sintesi, pur avendo l’azienda documentato il proprio impegno (peraltro, in termini solo economici) ciò, tuttavia, alla luce della mancata dimostrazione di aver adottato tutte quelle misure che, sebbene non specificatamente previste dalle normative vigenti, secondo l’esperienza e la tecnica avrebbero potuto essere adottate, ivi compreso il controllo sull’effettivo utilizzo dei Sistemi di .Protezione Individuale, non esclude la relativa responsabilità nella causazione della malattia professionale.
Personalmente, ritengo la questione e le relative sentenze, molto importanti ed interessanti visto il principio affermato.

Brescia, 4.12.2008
Avv. Enrico Bartolini

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